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цель Сочи 2014 – Obiettivo Sochi 2014: Eugenio Monti, storia di un “Genio”
Eugenio Monti, nel 1950, pensava solo allo sci. Sarebbe potuto essere l’erede di Zeno Colò. Molto prima di Alberto Tomba. Gli piaceva molto la discesa libera, la velocità, ma altrettanto bene gli riusciva lo slalom speciale. A Muerren, nella discesa del Kandahar, fu secondo alle spalle di Jean Couttet. Nella sua Cortina vinse poi i titoli italiani di slalom e gigante e fu bronzo in discesa, dietro Roberto e Alfonso Lacedelli. E fu in quell’occasione che Eugenio Monti fu battezzato il “Rosso Volante”, da Gianni Brera, per il colore dei suoi capelli, per il coraggio che dimostrava in gara.
Nato il 23 gennaio del 1928, a Dobbiaco, a 22 anni era una delle promesse dello sci azzurro degli anni Cinquanta. Poi cadde rovinosamente, durante una sessione di allenamento a Cervinia, sulla pista del Ventina, e si lacerò i legamenti di entrambe le ginocchia. I sogni di gloria sembrarono svanire: Eugenio con lo sci aveva chiuso. Ma proprio da quell’incidente sul Ventina, cominciò la carriera del più grande pilota di bob della storia. Lì morì Eugenio, e lì nacque il “Genio”.
Questa è la storia di colui che incarnò la velocità nei budelli di ghiaccio di tutto il mondo per oltre tre lustri; di colui che raccolse con pazienza i frutti di un lavoro lungo e meticoloso solo all’età di quarant’anni, con il doppio oro alle Olimpiadi di Grenoble del 1968; del gentiluomo meno gentiluomo dello sport internazionale. Un’epopea che non finirà mai di essere raccontata, una storia, quella del “Rosso Volante”, che rappresenta uno degli emblemi della storia dello sport.
Il “Rosso volante” aveva un talento inaudito per le traiettorie. Le studiava centimetro per centimetro, saliva e scendeva lungo le piste di gara a piedi, per ore, con il termometro in mano per controllare se la temperatura tendeva a salire o a scendere, immaginando tutte le variabili della discesa. E non sbagliava mai. O quasi. Sotto i piedi aveva la macchina più veloce al mondo, quella che fu definita da molti cronisti la “Ferrari dei ghiacci”. Si chiamava Podar, dal soprannome di Evaldo D’Andrea, un artigiano cortinese che costruiva manualmente questo super-bob capace di sconfiggere la concorrenza di costruttori molto più affermati come gli svizzeri Feierabend. Ma non bastava. Monti accudiva il suo Podar rosso fuoco, con la scritta Italia I, come una reliquia. Lo coccolava e lo lucidava continuamente. Prima delle gare, ne strofinava i pattini con del pelo di gatto perché aveva scoperto che, così facendo, riusciva a strappare al ghiaccio qualche alito di velocità in più. Era il migliore, lo sapevano tutti. Eppure, la sua, fu una carriera piena di ostacoli.
Nel 1954, Eugenio Monti conquistò il suo primo titolo italiano nel bob a 4 e cominciò a percorrere una storia agonistica che pare scritta da un romanziere. Nel ’56 si presentò da outsider di lusso all’Olimpiade che si svolgeva dietro casa sua, a Cortina d’Ampezzo. Vinse due argenti: nel 2 con Renzo Alverà, e nel 4. Nel ’57, ancora in coppia con Alverà, vinse il suo primo oro mondiale. Nel 1960, a Cortina, divenne campione mondiale in entrambe le categorie. Quell’anno la sorte gli fu nemica visto che le gare olimpiche previste a Squaw Valley, negli Usa, furono cancellate e i Mondiali organizzati in fretta e furia a Cortina ne furono solo un rimpiazzo. Si sa, due ori iridati, pur importanti, non valgono certo il titolo olimpico. Alla fine della carriera, Monti ne incamerò nove di medaglie d’oro mondiali, oltre alle sei olimpiche: un bottino da campione vero.
Arrivò l’anno dell’Olimpiade del “bullone”. Fu nel ’64, a Innsbruck, dove Monti gareggiava con Sergio Siorpaes nel bob a 2 ed era il momento che il “Genio” attendeva da otto anni per agguantare il successo a cui aspirava di più: l’oro olimpico. Dopo il doppio argento di Cortina ’56, Monti non aveva avuto altre opportunità per dare l’assalto al titolo più prestigioso. A Innsbruck il suo rivale più accreditato era Tony Nash, pilota inglese di buona stoffa, che gareggiava nel 2 con Robin Dixon. Al termine della prima manche Nash aveva il tempo migliore, ma aveva spezzato un fondamentale bullone del suo bob e i ricambi erano troppo lontani dalla pista. Per l’inglese i sogni di gloria sembravano infranti. I bob erano identici. Monti si avvicinò all’inglese e gli disse: “Non ti preoccupare, te lo presto io il bullone”. Nash vinse l’oro e Monti si dovette accontentare del bronzo. All’azzurro fu attribuito il premio De Coubertin per il fair-play, ma il sogno dell’oro olimpico andava ancora una volta deluso. A chi gli chiedeva il perché del suo gesto, Monti rispondeva da montanaro: “Tanto, se non glielo davo io, glielo dava un altro”. Parole spicce per dire che della sportività non si deve menar vanto.
Nel ’65 Monti annunciò il suo ritiro dalle gare, poi tornò sui suoi passi rivincendo il Mondiale, ancora a Cortina, nel ’66. Nel ’67, sulla pista dell’Alpe d’Huez, in Francia, provò la pista che l’anno successivo avrebbe ospitato le nuove Olimpiadi, e fu un disastro. Le temperature elevate e la mancanza di professionalità degli organizzatori francesi misero a serio rischio la pelle dei bobbisti che finirono in sequenza fuori dal percorso di gara. Volò Oancea, seguito da Pavlikovic, Tony Nash – l’uomo del bullone – si ribaltò e la stessa sorte capitò al francese Galienne. Anche Monti finì fuori pista riportando ferite e contusioni varie. Il conto con quella pista era aperto. Il saldo arrivò l’anno successivo.
E finalmente fu il trionfo, il capolavoro, l’Olimpiade di Grenoble ’68, in cui Eugenio Monti è assurto ad eroe assoluto, con lo sciatore Jean Claude Killy. Sulle pista dell’Alpe d’Huez, il “Rosso” volò fino all’oro sia nel 2, con Luciano de Paolis, che nel 4, con lo stesso de Paolis, con Mario Armano e Roberto Zandonella. Era ora. Era oro! Aveva quarant’anni suonati e finalmente aveva coronato il sogno di tutta una vita: diventare campione olimpico. Lo fecero commendatore della Repubblica e lui si ritirò dall’agonismo per occuparsi dei suoi impanti di risalita a Cortina.
Negli anni successivi la sua vita fu contrappuntata dalle gioie di un matrimonio felice con l’americana Linda Lee Constantine, di quattordici anni più giovane di lui, e dall’immane dolore che lo annientò quando perdette il figlio Alec, scomparso tragicamente a 24 anni, nel ’96. Eugenio Monti poté assistere ad un nuovo trionfo del bob azzurro ad un’Olimpiade: accadde nel ’98, sulla pista di Nagano (Giappone), quando Guenther Huber e Antonio Tartaglia riportarono all’Italia quell’oro che solo il “Rosso volante” era stato capace di vincere trent’anni prima.
Assalito dal morbo di Parkinson, il “Rosso” non si riconosceva più. La macchina perfetta del suo corpo stava ora mostrando tutti gli urti contro le pareti della vita. Era sempre stato abituato a volare, Monti. Non era mai stato un tipo da mezze misure. E’ morto suicida nella sua casa di Cortina, sparandosi un colpo di pistola alla tempia il 1 dicembre 2003.
цель Сочи 2014 – Obiettivo Sochi 2014: Eugenio Monti, storia di un “Genio”
Eugenio Monti, nel 1950, pensava solo allo sci. Sarebbe potuto essere l’erede di Zeno Colò. Molto prima di Alberto Tomba. Gli piaceva molto la discesa libera, la velocità, ma altrettanto bene gli riusciva lo slalom speciale. A Muerren, nella discesa del Kandahar, fu secondo alle spalle di Jean Couttet. Nella sua Cortina vinse poi i titoli italiani di slalom e gigante e fu bronzo in discesa, dietro Roberto e Alfonso Lacedelli. E fu in quell’occasione che Eugenio Monti fu battezzato il “Rosso Volante”, da Gianni Brera, per il colore dei suoi capelli, per il coraggio che dimostrava in gara.
Nato il 23 gennaio del 1928, a Dobbiaco, a 22 anni era una delle promesse dello sci azzurro degli anni Cinquanta. Poi cadde rovinosamente, durante una sessione di allenamento a Cervinia, sulla pista del Ventina, e si lacerò i legamenti di entrambe le ginocchia. I sogni di gloria sembrarono svanire: Eugenio con lo sci aveva chiuso. Ma proprio da quell’incidente sul Ventina, cominciò la carriera del più grande pilota di bob della storia. Lì morì Eugenio, e lì nacque il “Genio”.
Questa è la storia di colui che incarnò la velocità nei budelli di ghiaccio di tutto il mondo per oltre tre lustri; di colui che raccolse con pazienza i frutti di un lavoro lungo e meticoloso solo all’età di quarant’anni, con il doppio oro alle Olimpiadi di Grenoble del 1968; del gentiluomo meno gentiluomo dello sport internazionale. Un’epopea che non finirà mai di essere raccontata, una storia, quella del “Rosso Volante”, che rappresenta uno degli emblemi della storia dello sport.
Il “Rosso volante” aveva un talento inaudito per le traiettorie. Le studiava centimetro per centimetro, saliva e scendeva lungo le piste di gara a piedi, per ore, con il termometro in mano per controllare se la temperatura tendeva a salire o a scendere, immaginando tutte le variabili della discesa. E non sbagliava mai. O quasi. Sotto i piedi aveva la macchina più veloce al mondo, quella che fu definita da molti cronisti la “Ferrari dei ghiacci”. Si chiamava Podar, dal soprannome di Evaldo D’Andrea, un artigiano cortinese che costruiva manualmente questo super-bob capace di sconfiggere la concorrenza di costruttori molto più affermati come gli svizzeri Feierabend. Ma non bastava. Monti accudiva il suo Podar rosso fuoco, con la scritta Italia I, come una reliquia. Lo coccolava e lo lucidava continuamente. Prima delle gare, ne strofinava i pattini con del pelo di gatto perché aveva scoperto che, così facendo, riusciva a strappare al ghiaccio qualche alito di velocità in più. Era il migliore, lo sapevano tutti. Eppure, la sua, fu una carriera piena di ostacoli.
Nel 1954, Eugenio Monti conquistò il suo primo titolo italiano nel bob a 4 e cominciò a percorrere una storia agonistica che pare scritta da un romanziere. Nel ’56 si presentò da outsider di lusso all’Olimpiade che si svolgeva dietro casa sua, a Cortina d’Ampezzo. Vinse due argenti: nel 2 con Renzo Alverà, e nel 4. Nel ’57, ancora in coppia con Alverà, vinse il suo primo oro mondiale. Nel 1960, a Cortina, divenne campione mondiale in entrambe le categorie. Quell’anno la sorte gli fu nemica visto che le gare olimpiche previste a Squaw Valley, negli Usa, furono cancellate e i Mondiali organizzati in fretta e furia a Cortina ne furono solo un rimpiazzo. Si sa, due ori iridati, pur importanti, non valgono certo il titolo olimpico. Alla fine della carriera, Monti ne incamerò nove di medaglie d’oro mondiali, oltre alle sei olimpiche: un bottino da campione vero.
Arrivò l’anno dell’Olimpiade del “bullone”. Fu nel ’64, a Innsbruck, dove Monti gareggiava con Sergio Siorpaes nel bob a 2 ed era il momento che il “Genio” attendeva da otto anni per agguantare il successo a cui aspirava di più: l’oro olimpico. Dopo il doppio argento di Cortina ’56, Monti non aveva avuto altre opportunità per dare l’assalto al titolo più prestigioso. A Innsbruck il suo rivale più accreditato era Tony Nash, pilota inglese di buona stoffa, che gareggiava nel 2 con Robin Dixon. Al termine della prima manche Nash aveva il tempo migliore, ma aveva spezzato un fondamentale bullone del suo bob e i ricambi erano troppo lontani dalla pista. Per l’inglese i sogni di gloria sembravano infranti. I bob erano identici. Monti si avvicinò all’inglese e gli disse: “Non ti preoccupare, te lo presto io il bullone”. Nash vinse l’oro e Monti si dovette accontentare del bronzo. All’azzurro fu attribuito il premio De Coubertin per il fair-play, ma il sogno dell’oro olimpico andava ancora una volta deluso. A chi gli chiedeva il perché del suo gesto, Monti rispondeva da montanaro: “Tanto, se non glielo davo io, glielo dava un altro”. Parole spicce per dire che della sportività non si deve menar vanto.
Nel ’65 Monti annunciò il suo ritiro dalle gare, poi tornò sui suoi passi rivincendo il Mondiale, ancora a Cortina, nel ’66. Nel ’67, sulla pista dell’Alpe d’Huez, in Francia, provò la pista che l’anno successivo avrebbe ospitato le nuove Olimpiadi, e fu un disastro. Le temperature elevate e la mancanza di professionalità degli organizzatori francesi misero a serio rischio la pelle dei bobbisti che finirono in sequenza fuori dal percorso di gara. Volò Oancea, seguito da Pavlikovic, Tony Nash – l’uomo del bullone – si ribaltò e la stessa sorte capitò al francese Galienne. Anche Monti finì fuori pista riportando ferite e contusioni varie. Il conto con quella pista era aperto. Il saldo arrivò l’anno successivo.
E finalmente fu il trionfo, il capolavoro, l’Olimpiade di Grenoble ’68, in cui Eugenio Monti è assurto ad eroe assoluto, con lo sciatore Jean Claude Killy. Sulle pista dell’Alpe d’Huez, il “Rosso” volò fino all’oro sia nel 2, con Luciano de Paolis, che nel 4, con lo stesso de Paolis, con Mario Armano e Roberto Zandonella. Era ora. Era oro! Aveva quarant’anni suonati e finalmente aveva coronato il sogno di tutta una vita: diventare campione olimpico. Lo fecero commendatore della Repubblica e lui si ritirò dall’agonismo per occuparsi dei suoi impanti di risalita a Cortina.
Negli anni successivi la sua vita fu contrappuntata dalle gioie di un matrimonio felice con l’americana Linda Lee Constantine, di quattordici anni più giovane di lui, e dall’immane dolore che lo annientò quando perdette il figlio Alec, scomparso tragicamente a 24 anni, nel ’96. Eugenio Monti poté assistere ad un nuovo trionfo del bob azzurro ad un’Olimpiade: accadde nel ’98, sulla pista di Nagano (Giappone), quando Guenther Huber e Antonio Tartaglia riportarono all’Italia quell’oro che solo il “Rosso volante” era stato capace di vincere trent’anni prima.
Assalito dal morbo di Parkinson, il “Rosso” non si riconosceva più. La macchina perfetta del suo corpo stava ora mostrando tutti gli urti contro le pareti della vita. Era sempre stato abituato a volare, Monti. Non era mai stato un tipo da mezze misure. E’ morto suicida nella sua casa di Cortina, sparandosi un colpo di pistola alla tempia il 1 dicembre 2003.